Anche su Twitter la risposta deve far capire la domanda

Alle medie ero un tantino sbrigativo nel rispondere ai test di Geografia: rispondevo sul quaderno con secchi si/no alle domande nozionistiche poste sul libro. Il risultato somigliava alla pagina 46 della settimana enigmistica: una lunga fila di numeri e risposte monosillabiche 1) sì – 2) no – 3) 500.000 abitanti – 4) le Alpi.

L’orgoglio del tredicenne che infila una mitragliata di risposte giuste veniva smorzato da impietose correzioni a penna che si limitavano a dire: La risposta deve far capire la domanda.

Nell’orizzonte mentale dello scolaro esistevano il libro e il quaderno come entità inscindibili e mai avrebbe pensato che, come scritto in sé, quella sequenza di risposte sarebbe risultata un’arida lettura di difficile comprensione.

Questo ricordo mi è balzato alla mente quando stamattina ho letto il Contrappunti di Mante:

Il successo di Twitter, a differenza di quanto è accaduto a Facebook, sembra passare attraverso una logica broadcast con una spruzzata di improbabile interazione: la piattaforma acquista valore ed attenzione non tanto – come credevano i suoi fondatori all’inizio – nella costruzione di una ragnatela di rapporti interpersonali mediati da una sorta di sistema SMS allargato, ma attraverso la discesa in campo di una serie di emettitori forti, capaci di attirare l’attenzione del grande pubblico. Attorno ad essi cresce una vasta nuvola popolare di rimandi e brevi commenti, hashtag e replay di semplice esecuzione ma di modesto valore comunicativo visto che il sistema stesso mal si presta ad una conversazione organica e tracciabile.

PI: Contrappunti/ Cinguettii democratici

Dopo 5 anni di twitting, dopo ripromesse iniziali di buona comunicazione condensata in 140 caratteri, di elogio dell’haiku, la tentazione di usare Twitter come un mezzo di conversazione tramuta le nostre timeline in sequenze di risposte e hashtag che impacchettano degli eggià, anch’io, e che dire di, favoloso, LOL, etc.

Se una conversazione va oltre la prima risposta viene automaticamente frammentata e se sono un nuovo utente e mi imbatto nella conversazione fra due twitterutenti che stanno parlando ho l’impressione di due sequenze di risposte ad un quiz che si parlano fra di loro.

Se su Twitter improvvisamente compare un drappello di celebrità e giornalisti è inevitabile che questi si tramutino in iniettori di contenuto a cui gli altri utenti si limitano a fare reply per l’irresistibile gusto di interagire con il vip, di contare qualche cosa. Ai tempi del Re Sole ci si vantava perché Le Roi m’a régardé.

Su Twitter contano i contenuti come scrive Mafe e mette in pratica nella sua timeline.

Certo, anche Twitter può essere usato per tenersi in contatto con i propri amici intimi (usando il lucchetto, per esempio), ma non è la piattaforma più comoda dove farlo. L’interfaccia su Twitter oggi privilegia la condivisione pubblica dei contenuti e favorisce la scoperta di contenuti nuovi […]

Tutto questo è importante solo se abbiamo un obiettivo preciso da raggiungere, il che richiede un minimo di pianificazione editoriale: su Twitter i 140 caratteri non sono una gabbia, ma un formato che valorizza rilevanza e arguzia e premia chi sa usarli avendo ben chiaro il contesto.

Ogni volta che leggo un miniracconto di 140 caratteri, un’istantanea di giochi di parole, uno stato d’animo trasferito in un twit, rimango ammirato come da un cioccolatino di alta pasticceria, una caramella artigianale, qualcosa di piccolo e unico. E mi riprometto di fare altrettanto, ma poi…

Mentre il dito fa l’ennesimo laconico check-in su Foursquare mi assale un sussulto di coscienza: a chi può interessare dove faccio colazione? Mi reprimo e spengo la pubblicazione su Twitter.

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