Il 14 febbraio, per me.

Io rifuggo le feste comandate.
Natale mi dà l’orticaria, Pasqua è solo un casino organizzativo, ad ogni compleanno fuggirei in Patagonia.
Urlando.

Stamattina, di buon ora, la mia amica Lara mi ha fatto gli auguri. Io non capivo il perché.
Ma come perché? Che giorno è oggi?
Martedì.
Bestia! È San Valentino!
San Valentino? San Valentino? E lo vieni a dire a me? A ME?

Però… però… però…
C’è una ragione per cui anche un’apostata del festeggiamento dovrebbe ricordare il il 14 febbraio: è la giornata mondiale delle cardiopatie congenite.

Nascere con una cardiopatia congenita non è poi così improbabile. Capita a 8 bambini su 1000, quasi 1 su 100.
A occhio e croce in Italia ci dovrebbero essere 500.000 persone nate con una cardiopatia congenita: insomma più o meno Bologna e Modena messe insieme, con buona pace del tortellino.
Son tanti.
E, spesso, son dimenticati.

Nascere con una cardiopatia congenita non è un piccolo incidente di percorso che si risolve in sala operatoria con un simpatico hot fix.
Il cuore, come muscolo, bene o male, prima o poi in qualche modo si sistema. Ci sono strutture e medici straordinari che fanno letteralmente miracoli ogni giorno (e senza aver nemmeno bisogno di intercessioni).

Ma far nascere un bambino con una cardiopatia congenita vuol dire soprattutto avere e dargli una cicatrice sull’anima ancora prima di nascere.
Non c’è niente che va come dovrebbe, dopo la diagnosi di c’è qualcosa che non va sul cuore.
Ore, giorni, mesi di attesa, col cuore (sempre lui, sto maledetto) in gola a chiedersi perché. A chiedersi come sarà dopo. A chiedersi se ci sarà un dopo.
Poi il dopo arriva, il bambino nasce e subito se ne va per la sua difficile strada fatta di mani aliene, luci forti e bip incessanti.
E poi arriva il tanto sospirato giorno dell’hot fix. Quello che speri arrivi presto. Quello che che speri non arrivi mai.
E non sai se è più difficile stare al di qua o al di là di quella porta. Ma in ogni caso tu di là non ci puoi stare. Lui di qua nemmeno.
E allora avanti, avanti ancora e speri che finisca presto. Presto, ma non troppo presto. Un presto giusto, insomma.
E ti illudi che dopo sarà tutta discesa.

Il cuore non è un muscolo come tutti gli altri. Non è come lo psoas. Nessuno, quantomeno nessuno vicino alla soglia della sanità mentale, passerebbe mesi di angoscia sapendo di dover metter mano allo psoas.
Ma col cuore non funziona così. Sarà perché senza non si può vivere, sarà perché già i greci lo avevano eletto scrigno dei sentimenti e della ragione, ma il pensiero di dover intervenire sul cuore fa una paura boia.
Poi se si deve fare si fa, ma non è che ci si va incontro saltellando felici come la migliore delle vispe Terese.

Però prima nessuno pensa che dopo sarà tutto diverso.
La cicatrice sul petto ti ricorda ogni giorno che il tuo cuore non è sano.
I controlli che devi fare ogni tanto ti ricordano che il tuo cuore non è sano.
Il fatto che non puoi fare molti sport ti ricorda che il tuo cuore non è sano. E stiamo parlando di darsi al calcetto, mica al bungee jumping.

E poi c’è la paura.
Quella tensione che si impara col corpo ben prima che col cervello.
Quella che non si sa spiegare, ma che esce nei momenti più impensati. Quella che ti blocca nel momento di scegliere se ordinare una pizza o un piatto di pasta. Quella che ti impone di aver continuamente rassicurazioni che non sarai abbandonato. Che non sei mai stato abbandonato. Quella che ti fa gridare di terrore all’idea di dover fare un bagno.
Un grumo oscuro che in confronto il sottosopra di Stranger Things è una ridente località di villeggiatura.

Nessuno ti spiega prima (e neanche dopo, a dirla tutta) che avere una cardiopatia congenita non è tanto avere un muscolo difettoso, quanto avere un’anima fragile.

Un’anima che non potrà essere facilmente sanata e che merita ogni giorno di essere trattata con le dovute precauzioni.

Un’anima fragile di 500.000 persone intorno a noi.
Il 14 febbraio è il loro giorno.
Anche se non ci sono baci perugina a ricordarcelo.

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